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Ricostruzione dell’ultima Missione

 

Il programma di posa di campi minati da parte di unità subacquee è imponente. Anche l’Atropo, il più recente come anno di costruzione, nel mese di Settembre, parte alla volta delle coste Greche per la posa di sbarramenti offensivi [3].

Martedì 1° Ottobre 1940 a tarda sera [4], al comando del Capitano di Corvetta Mario Ciliberto con 68 uomini d’equipaggio, 8 in più rispetto all’equipaggio standard, il Foca lascia il porto di Taranto per una missione offensiva, da effettuarsi ai danni degli Inglesi.

 Il giorno seguente il comandante solca le acque antistanti casa sua a Crotone. Doppiato Capo colonna, dirige il battello verso le acque di Alessandria d’Egitto (Al’Iskandariyah) nel punto indicato da Maricosom (latitudine 33°30’ Nord - longitudine 30° Est) .

Porta dentro di se un carico micidiale di 36 mine del tipo TV 200/800, del peso totale di 1000 kg l’una, contenenti una carica di 200 kg di tritolo fuso, impiegabili su fondali fino a 800 metri, costruite dalle Officine Tosi.

Gli ordigni devono essere posati al largo di Capo Carmelo (Palestina) lungo la radiale per 350° a partire dal punto che si trova a 6 miglia dalla costa lungo la radiale per 267° dal faro di Capo Carmelo.

Il Foca è già al largo delle coste ioniche. Osserverà il completo silenzio radio per tutta la durata della missione.

Il Battello deve percorrere più di 1000 Miglia per raggiungere l’obiettivo ed altrettante per tornare.

Non ha il pieno di carburante, sarebbero troppe tutte le 63 tonnellate di nafta che, alla velocità di crociera di 8 nodi, gli permetterebbero di percorrere 7800 miglia: non serve portarsi dietro tutto quel peso, ne basta meno della metà. Non ci sono comunque problemi di autonomia.

La missione prevede molte ore di navigazione, da effettuarsi in parte in superficie e in parte in immersione, prima di solcare le tiepide acque della Palestina.

Le ultime miglia saranno coperte rigorosamente in immersione, utilizzando esclusivamente i motori elettrici. Questo per evitare avvistamenti da parte della RAF, che potrebbero far annullare la missione. I micidiali aerosiluranti dell’aviazione Inglese sono spesso in perlustrazione e di giorno la sagoma del sommergibile sarebbe facilmente individuabile.

Anche stavolta il pensiero dei marinai è rivolto al ritorno a casa. Mario, Gualtiero, Antonio, Severino, Vincenzo e gli altri uomini del Foca, sanno che presto torneranno dalle loro famiglie, che rivedranno mogli, madri e fidanzate e questo pensiero li sostiene per tutta la missione.

L’equipaggio del Foca, però, ignora l’incidente accaduto all’Atropo in quegli stessi giorni, presso le coste greche. Infatti durante la fase di posa dello sbarramento di mine, uno degli ordigni espulsi esplode accidentalmente all’esterno del battello, senza provocare danni irreparabili, ma costringendo il Comandante a fare rapidamente rientro in porto, a Taranto.

 

Il mediterraneo orientale

“La solidarietà è forte, intensa, commovente, fatta di grande fiducia nel Comandante. La “rapida”, cioè lo spegnimento dei motori termici, l’avvio dei motori elettrici, la chiusura del boccaporto e delle valvole verso l’esterno, l’azionamento dei mille congegni e l’inabissarsi, è un lavoro di squadra dove la vita di tutti è affidata ai secondi, all’impegno di ognuno, al fare parte di un tutto unico” [www.trentoincina.it].

I marinai non sono mai soli a bordo “perché i topi sono dappertutto sui battelli”. Tanto è vero che si narra di un “topo che rimase schiacciato dentro una valvola rischiò di trasformare l’immersione in tragedia” [www.trentoincina.it].

La vita a bordo è molto dura, i “ragazzi” devono rimanere segregati per giorni in quegli spazi angusti, umidi e spesso puzzolenti.

Una volta raggiunto il punto indicato da Maricosom, posto 100 miglia a nord di Alessandria d’Egitto, il Foca prosegue la sua rotta verso est e dopo qualche giorno si trova nelle calde acque della baia di Haifa, o meglio della baia di Acre, come allora si chiamava, dal nome della cittadina all’altro capo del golfo.

Durante le ore di luce il Foca ha navigato per lo più in immersione, emergendo alle prime ore dopo il tramonto.

Dopo ogni emersione , per prima cosa, viene aperta la torretta per “l’esaurimento a bassa pressione”. E’ possibile aspirare l’aria per far funzionare i gruppi generatori Diesel/Dinamo costituiti dagli stessi motori Diesel che trascinano i motori elettrici utilizzandoli come generatori di corrente continua.

Contemporaneamente si cambia l’aria per l’equipaggio, un’aria stantia, prodotta durante l’immersione, in maniera sintetica dai sistemi di bordo, filtrando l’anidride carbonica ed immettendo la corrispondente quota di ossigeno.

Navigare in immersione, senza ecogoniometro, uno strumento che solo più tardi verrà montato nei sommergibili italiani, è come navigare completamente ciechi. E’ impossibile anche individuare eventuali ordigni nemici posti a protezione del porto.

 

Haifa

Nel 1940 il porto di Haifa è già uno dei più grandi del Mediterraneo. Quando gli inglesi occupano la Palestina nel 1918, si rendono conto che “Kaifa”, come allora si chiamava in arabo, è il posto ideale per un porto di grandi dimensioni, con acque profonde, che possa farsi carico del traffico delle merci verso la madrepatria, provenienti dai vasti territori controllati.

In realtà il primo che comprese le grandi possibilità di sviluppo della baia e della piccola cittadina di Haifa fu Benjamin Zeev Herzl, fondatore della politica Sionista, il quale visitò la baia nel 1898 e scrisse una profetica descrizione del futuro della città e del porto nel suo libro "Alt-Neuland".

Gli inglesi, negli anni ’20, progettano una linea ferroviaria che dovrebbe unire il porto di Haifa, col porto di Akaba, creando una via diretta tra Mar Rosso e Mediterraneo. L'importanza strategica che potrebbe avere tale collegamento é evidente: con esso può essere assicurata, in ogni evenienza, in territorio completamente controllato dagli inglesi, una linea di comunicazione sussidiaria a quella del canale di Suez, a poca distanza da questo.

Nello stesso periodo, è allo studio il progetto per la costruzione di una seconda linea ferroviaria che, partendo sempre dal porto di Haifa, dovrebbe raggiungere Bagdad: anche l’Irak fa parte dei territori controllati dagli inglesi. In questo modo, attraverso la Palestina, la Transgiordania e l'Irak, il Governo di Londra si assicurerebbe la rapidità delle comunicazioni lungo una via totalmente controllata, fra il Mediterraneo e il Golfo Persico.

Già un oleodotto lungo 900 km conduce il petrolio da Kirkuk , in Irak, sino al porto di Haifa.

I primi sondaggi per la costruzione del nuovo porto da parte degli inglesi sono iniziati nel 1920, l’opera viene ufficialmente inaugurata il 31 di Ottobre del 1933. Sette anni dopo il Foca solca quelle acque.

 

Il punto nave

Per fare il punto nave bisogna scrutare le stelle, per fare questo si deve emergere completamente e salire in torretta. In alternativa si può individuare la propria posizione, tramite riferimenti certi sulla costa, utilizzando il solo periscopio.

E’ la notte di Domenica 13 Ottobre o quella di Lunedì 14 quando il Foca risale a quota periscopica per fare il punto nave. Il battello si trova davanti ad un promontorio che protegge il porto. Per prima cosa l’Ufficiale di rotta, dopo aver alzato il periscopio, fà un giro d’orizzonte a 360 gradi per accertarsi dell’assenza di unità di superficie.

Fuori c’è la luna piena ma il culmine si avrà tra il 15 e il 16, come si puà vedere dal calendario. La data di svolgimento della missione è stata scelta con cura: la luce della luna è molto importante per guardarsi intorno, avvistare navi nemiche, anche a luci spente, scrutare la costa.

 

L’Ufficiale si può orientare facilmente con la costa illuminata quasi a giorno dalla luna. Davanti a sé, in lontananza, vede le luci della città di Haifa sovrastata, sulla destra, dal promontorio del Monte Carmelo che si staglia contro il cielo. L’immagine, catturata dal periscopio è nitida e reale, sembra quasi di essere fuori, in torretta, in una notte di fine estate ad ammirare quella stupenda costa del continente Asiatico, così lontana da casa.

Il battello procede lentamente rimanendo sempre in immersione. E’ facile riconoscere la sommità del Monte Carmelo con i suoi 546 metri di altezza, punto di riferimento inconfondibile. Alla base del promontorio, poco sopra al mare, c’è il faro di Capo Carmelo.

E’ semplice così rilevare la posizione ed individuare l’area delle operazioni.

Il battello si sposta lentamente a quota periscopica, e fatte poche miglia si trova già in “posizione”. E’ l’alba, come prescritto da Maricosom, del giorno delle operazioni.

 

Il Monte Carmelo

Il Monte Carmelo è carico di significati biblici e religiosi. Nelle grotte dette del “Carmelo”, situate sulle pendici del monte verso il mare, proprio davanti al Foca, fecero vita da eremiti il profeta Elia ed il suo discepolo Eliseo. Nella Bibbia (Libro dei Re) è citato Eliseo che torna al Monte Carmelo.

In tempi successivi, un po’ più in alto, fu eretto dai Crociati il Santuario della Beata Vergine del Carmelo, con annesso Convento, ove nel 1224 fu fondato l’Ordine religioso dei Carmelitani, approvato da Papa Onorio III.

Successivamente, in seguito alle invasioni mussulmane (Turchi), i monaci sono stati costretti ad emigrare un pò in tutta Europa. Il Monastero è stato più volte distrutto e ricostruito.

La realizzazione del mastodontico edificio dell’attuale convento, iniziato nel 1827, è dovuta al coraggio ed alla perseveranza di Frate Battista da Frascati, Carmelitano, il quale compì lunghi e pazienti pellegrinaggi attraverso l’Europa per raccogliere i fondi necessari.

In seguito all’emigrazione dei Monaci, la Beata Vergine Maria del Monte Carmelo è così approdata anche in Italia come la Madonna del Carmine, molto diffusa e venerata soprattutto al sud. La Madonna è venerata nei paesi di lingua inglese come “Our Lady of Mount Carmel”.

L’immagine qui riprodotta mette in evidenza i caratteristici tratti bizantini sia della Madonna che di Gesù.

Il 16 di Luglio si festeggia, anche in Italia, Nostra Signora del Monte Carmelo.

Alla base del promontorio del Monte Carmelo c’è quel Capo Carmelo, con il relativo faro, che fa da riferimento alla missione.

Nelle acque al largo della costa, sullo sfondo della foto del promontorio, si immerge il Foca per l’azione operativa.

Tutta la storia religiosa di quei luoghi è probabilmente sconosciuta alla maggior parte dei membri dell’equipaggio o forse a tutti.

Molti di loro in quel momento riposano in attesa delle operazioni. Il battello, in immersione, non richiede grande impegno da parte dell’equipaggio.

 

Il Foca rimane in immersione

Per la ricarica delle batterie, da effettuare preferibilmente durante la notte, si dovrebbe far emergere almeno la torretta.

Avere le batterie cariche prima dell’operazione è di vitale importanza per la sopravvivenza del battello poiché serviranno per allontanarsi indisturbati ad operazione conclusa ma saranno ancor più indispensabili se l’unità dovesse essere scoperta ed attaccata.

Il sommergibile è un mezzo lento rispetto alle unità di superficie, l’unica via di fuga in caso di battaglia è rappresentata dall’inabissamento.

Considerata però la discreta autonomia rimasta ma soprattutto la prossimità del nemico, il Comandante decide probabilmente di procedere senza indugi verso l’obiettivo.

Mentre l’Ufficiale di rotta esegue gli ultimi calcoli gli uomini si portano ai propri posti di operazione. Vengono riempite le casse di zavorra ed inizia la discesa, da quota periscopica, verso profondità più sicure.

Si avviano i silenziosi motori elettrici da 650 CV ciascuno, che producono comunque vibrazioni all’interno dello scafo.

Il Foca si dispone sulla linea retta, 350°, per la posa del primo blocco di 6 ordigni da collocare a 50 metri di distanza l’uno dall’altro.

Di seguito, alla distanza di 500 metri, verrà posato il secondo gruppo e poi ancora il terzo per un totale di 20 ordigni. Gli ultimi 16 non sono armati e servono per i test da effettuare sulla rotta del ritorno.

 

 

Le operazioni di posa-mine

Sono al lavoro due squadre indipendenti: una sulla linea operativa di dritta ed una su quella di sinistra. Le espulsioni vengono effettuate alternativamente per non avere intralci reciproci.

La ricarica delle gallerie di lancio avviene normalmente di notte dal momento che è necessario riemergere completamente per svuotare l’acqua contenuta in esse e reintrodurre dall’interno altre otto mine per ciascuna galleria.

In immersione, dopo aver espulso ciascuna torpedine, il Foca, che è già orientato sulla rotta di posa dello sbarramento, avvia brevemente i motori per portarsi in posizione, cinquanta metri più avanti, per la posa del successivo ordigno mortale.

 

 

La prigione d’acciaio

Durante le operazioni la tensione è molto alta. La maggior parte dei membri dell’equipaggio sono ragazzi sui vent’anni ma tutti sono consapevoli del rischio che corrono.

I motori sono fermi, il silenzio è quasi completo. Si sente soprattutto lo stridore della mina, con i suoi 1000 chilogrammi, che scorre sulle “ferroguide” di espulsione trainata dalla catena motrice. In sottofondo si sentono i rumori dei servomotori utilizzati per la manovra di espulsione.

L’ordigno viene ruotato di 90° e poi espulso.

Ad un tratto una potente deflagrazione scuote il battello ed una nuvola di fumo lo invade. C’è stata una esplosione, non si sa bene se provocata da un ordigno esterno o da uno di quelli in uscita; a giudicare dal fumo dovrebbe essere un ordigno proprio.

Entra molta acqua. Suona la sirena di allarme, vengono subito chiusi alcuni portelli per limitare l’imbarco di acqua ma qualcuno rimane intrappolato al di là, nei comparti allagati. La sirena continua ad emettere il suo richiamo lacerante.

Il sommergibile comincia ad inclinarsi paurosamente, l’acqua continua ad entrare nel doppio scafo.

La prima cosa da fare è quella di ristabilire l’assetto, gravità zero, evitando di scendere verso il fondo. Deve essere espulsa una parte dell’acqua imbarcata, facendo affluire al suo posto l’aria compressa già stoccata nei serbatoi.

Parte dell’acqua potrebbe essere espulsa dal battello tramite le pompe di sentina ma si tratta di una operazione lunga che non consentirebbe, nel breve tempo a disposizione, l’espulsione di una quantità di acqua significativa.

L’aria compressa viene immessa nelle casse che si svuotano solo parzialmente. Il battello rallenta ma non si ferma, continua la sua lenta ma inesorabile discesa verso il fondo.

Si fa presto a capire che si sta sfiorando la tragedia. Non si riesce ad ottenere la spinta positiva poiché l’acqua ancora imbarcata è maggiore di quella consentita, il battello è ancora troppo pesante e non è possibile stabilizzarlo.

La situazione è estremamente grave. Il Foca si inabissa lentamente, sbandato su un fianco ed inclinato di poppa; vengono attivate le pompe di sentina per tentare un alleggerimento di emergenza.

L’attività è frenetica, il profondimetro segna valori sempre più pericolosi, viene espulsa un po’ d’acqua poi le pompe non funzionano più a causa della eccessiva pressione esterna. I bocchettoni di uscita devono essere chiusi per evitare l’imbarco di altra acqua.

Dopo pochi attimi si sente l’urto contro il fondale. Il profondimetro è a fondo scala, siamo ad oltre centoventi metri di profondità: più di 12 atmosfere di pressione. Il battello è stato progettato per 90 metri e collaudato a 100.

Il Foca con i suoi 69 uomini e buona parte del carico esplosivo giace ora a circa 130 metri sul fondo del mare, in un fondale inclinato che scende rapidamente verso profondità maggiori. Non è più possibile espellere acqua in nessun modo. La pressione esterna è troppo grande e non è possibile chiedere aiuto per radio, a quella profondità nessuno sarebbe comunque in grado di intervenire. Se solo gli inglesi sapessero in quali difficoltà si trova il Foca si precipiterebbero lì con una pioggia di micidiali bombe di profondità. Infine non è possibile in alcun modo uscire.

E’ l’ultimo duro colpo per tutto l’equipaggio. I motori non possono essere utilizzati. Anche se le eliche non fossero insabbiate, con il battello in condizioni di spinta negativa, qualsiasi propulsione sarebbe inutile: i motori non ce la farebbero a spostarlo.

Gli Ufficiali studiano, senza risultato, le possibili soluzioni ma vengono assaliti ad uno ad uno, dalla disperazione più nera. Il sommergibile è dotato del sistema di filtraggio dell’anidride carbonica e reimmissione di ossigeno che assicura qualche giorno di aria: meno di 100 ore. Questo non farà altro che allungare l’agonia.

La disperazione si è già impadronita di tutti i membri dell’equipaggio ormai chiusi nella loro grossa prigione d’acciaio.

Si alternano scene di sofferenza estrema a scene di intensa fratellanza. Gli uomini si abbracciano e si consolano l’un l’altro. Per sfuggire al senso di soffocamento si strappano le divise di dosso in preda a crisi nervose. Qualcuno batte disperatamente nelle pareti di acciaio del battello nella vana speranza di far sentire quella estrema invocazione di aiuto.

Vorrebbero morire subito piuttosto che affrontare quella lunga agonia. Qualcuno è già morto per effetto dell’esplosione, altri sono annegati, intrappolati nei locali invasi dall’acqua, qualcun altro si dà la morte da solo. Ogni battello ha un piccolo arsenale di fucili e pistole.

Il senso di soffocamento per i superstiti assediati dalla morte è sempre più forte. L’aria si fa sempre più pesante, l’illuminazione si affievolisce. Qualcuno vaga ancora nel buio, si sente solo qualche rantolo soffocato, poi il Foca non emette più nessun rumore; siamo tra il 18 e il 19 Ottobre, non si ha la concezione del tempo, ma questo per loro non è più molto importante.

Nello stesso momento in cui a Taranto si aspetta il rientro in porto del Foca, nel mare di Haifa, a 34° 49’ e 50’’ di Longitudine Est e 32° 49’ e 36’’ di Latitudine Nord, a 130 metri di profondità, si consuma l’immane tragedia.

Sessantanove Marinai sono morti dopo atroci sofferenze compiendo il loro dovere, quello che l’Alto Comando gli aveva affidato. Sessantanove inutili eroi di uno Stato che troppo presto li dimenticherà.

“Queste silenziose scomparse nell’abisso del mare devono essere conosciute da tutti gli Italiani perché possano elevare alla memoria di questi prodi Marinai un meritato tributo di riconoscenza” (Elio Andò) [6].

L’8 ottobre del 1942 nelle stesse acque affonderà anche il più famoso sommergibile Scirè, speronato da una nave Inglese dopo essere emerso per riprendere aria alla fine di una dura battaglia. Vi troveranno la morte tutti i 59 componenti l’equipaggio.

Alcune parti di questo battello sono state recuperate e sono esposte al Museo Navale di La Spezia. Dello scafo del Foca, invece, non si hanno notizie.